Il Mezzogiorno attuale, in assenza di una nuova prospettiva di sviluppo e di un processo di profonda trasformazione della cultura, dell’economia e della società, rischia di abbandonarsi a una memoria stereotipata e a una visione di corto respiro.
La ripresa in grande stile dell’economia del turismo, che rappresenta un fenomeno espansivo in molti centri meridionali, a cominciare da Napoli, e può diventare un valore aggiunto cospicuo, lievitando in qualità, durevolezza e proporzioni, non può essere reputata una panacea, provocando un brusco risveglio dopo un sogno impossibile.
Altre volte, in passato, si è ritenuto che si potesse assecondare una “divisione del lavoro” basata su un Nord industriale e un Sud a vocazione esclusivamente turistica: si trattava di un serio errore di valutazione, che avrebbe condannato il Mezzogiorno a un destino subalterno.
Infatti, il problema del Sud è contemporaneamente di valori e strutture. In questi anni, stanno emergendo realtà evolute in molti campi imprenditoriali e culturali e parti significative dei territori meridionali si sono collocate lungo il percorso dell’innovazione digitale e della bioeconomia circolare, sperimentando tecnologie moderne e un incremento dell’efficienza produttiva.
Nonostante queste novità, senza un mutamento di carattere sistemico è difficile pensare alla soluzione dei problemi del Mezzogiorno e al superamento dello stato di prostrazione di consistenti aree meridionali. A tale proposito, specie se si intende potenziare ed estendere la dotazione industriale del Sud cercando di recuperare il divario originario con il resto del Paese, occorre un lavoro di lunga lena, anche oltre il PNRR.
Questo impegno deve partire da un protagonismo meridionale, lontano dalla chiusura in una logica recriminatoria o localistica, ma capace di guardare all’avvenire in chiave nazionale ed europeista. In questo contesto, si possono cominciare a individuare i tasselli dell’ampio mosaico del Mezzogiorno da creare. La cultura imprenditoriale e manageriale è sicuramente uno degli aspetti che va maggiormente attivato.
Di recente, questo tema è stato affrontato in un Convegno svoltosi presso L’Orientale di Napoli, dal titolo “Archivi e memoria di impresa nel Mezzogiorno: bilanci e prospettive”, che ha visto la presenza di studiosi ed esperti, istituzioni e imprese. L’attenzione è stata posta sul ruolo degli imprenditori, del mondo aziendale, delle università e dei centri di ricerca, per la costruzione di un nuovo paradigma – dopo i modelli del fordismo e del neoliberismo – fondato su un intreccio virtuoso tra iniziativa pubblica, intervento delle imprese, diffusione di forme avanzate della cultura, della formazione, dell’analisi scientifica e delle tecnologie.
La riflessione principale ha riguardato l’importanza della memoria, degli archivi e dei musei di impresa quali fonti cruciali non solo per capire l’evoluzione dell’economia meridionale, ma per proiettare il sistema produttivo di quest’area verso il futuro, valorizzando le attività esistenti e la loro storia.
Si tratta di considerare la longevità e la redditività aziendale, come fa la business history, indicatori primari per giudicare la validità attuale di una esperienza imprenditoriale. Ed è anche possibile collocare le imprese del Sud in un contesto in vorticosa trasformazione, rafforzandone l’identità, la conoscenza e la cultura imprenditoriale, le leve di marketing e gli strumenti strategici più utili al loro progresso.
Un grande storico economico da poco scomparso, Antonio-Miguel Bernal, avvertiva che, per studiare e comprendere l’essenza di un’impresa, bisognava ricorrere ai suoi archivi, alla documentazione e alla contabilità in essi contenuta. Questo insegnamento non era un richiamo di tipo “economicistico” a una tradizione consolidata, ma fornisce ancora oggi una traccia indelebile, una metodologia chiara per fare una storia concludente e fruttuosa.
Notevoli studiosi hanno costituito la storia d’impresa italiana, che si è rivolta prevalentemente al Nord, data la predominanza di quel tessuto industriale, occupandosi prevalentemente di grandi aziende, più vicine allo schema anglosassone. Quello sforzo, tuttavia, di fronte a un modello nazionale e continentale imperniato sulla piccola e media impresa, sta esaurendo parte del suo compito.
Nei territori centro-meridionali vi è una trama produttiva molto più fragile di quella settentrionale e ancora inconsapevole della sua storia. È qui che si può realizzare una nuova stagione della storia d’impresa, iniziando dalla raccolta della miriade di archivi pubblici e privati, che possono essere oggetto di una ricognizione accurata, anche con la digitalizzazione, e di una indagine che non si fermi all’esame di una singola azienda, ma punti a ricostruire un quadro compiuto, tenendo insieme l’analisi micro con quella macroeconomica.
Questa prospettiva, oltre a unificare i dati di un complesso di aziende di minori dimensioni ma di vasta numerosità, può contribuire al consolidamento di una rilevante disciplina scientifica, come pure al rilancio della cultura imprenditoriale e alla promozione della struttura produttiva del Sud.
Del resto, gli archivi del Banco di Napoli e della Cassa per il Mezzogiorno già svolgono questa funzione, al tempo stesso, di scoperta e di disseminazione. Occorrerebbe aggiungere ad essi un sistema archivistico centro-meridionale e recuperare alcuni nuclei simbolici per la storia e la cultura d’impresa. Uno di questi, valido per tutti, è rappresentato dal borgo monumentale, dal belvedere e dalla manifattura di San Leucio, esempio anticipatore di una vera e propria company town, come viene mostrato in un volume di due valenti ricercatori edito da Rubbettino.
Il ritorno alla storia economica non è una fuga verso il passato, ma il modo migliore per riprendere il discorso su valori di fondo della società e contribuire incisivamente al progresso dell’economia.
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