Il private equity sta veramente cambiando pelle? Sono ormai numerosi gli articoli e i commenti che sottolineano come l’attività di private equity, anche alla luce delle recenti incertezze a livello economico e geopolitico, stia significativamente modificando le sue modalità operative, cercando di aderire sempre di più a quelle che sono le esigenze e le tempistiche sia degli investitori che delle società partecipate, diventando sempre più industriale e adattandosi e sfruttando al meglio l’enorme potenzialità che deriva dalle nuove tecnologie.

Del resto con la locuzione «private equity» si intende qualsiasi tipo di attività di investimento in capitale di rischio in società non quotate (quindi quasi tutte) effettuato con lo scopo di incrementare il valore della società partecipata. Tale attività, così definita, viene di fatto svolta da un’amplissima categoria di operatori aventi modalità operative e approcci di investimento spesso molto diversi tra loro.

Non è un caso che la stessa associazione italiana del private capital (Aifi) abbia recentemente sottolineato come un numero sempre maggiore di operazioni (circa un terzo ma forse anche molto di più) venga effettuato da soggetti che non rientrano nelle categorie classiche attualmente regolamentate e che molto spesso usano risorse proprie o di investitori a loro vicini e comunque autonomi dal punto di vista decisionale. Basti pensare, tra gli altri, agli investimenti effettuati dalle holding quotate o non quotate, dai fondi sovrani, dai search funds, dai family offices o dai business angels.

Questa eterogeneità è certamente positiva, in quanto aumenta significativamente la quantità di risorse a disposizione di questo tipo di investimenti che molto bene fanno all’economia e allo sviluppo delle società, così come ampiamente dimostrato da numerose ricerche e analisi. Anzi, molti di questi operatori investono con una logica di “permanent capital” (ovvero senza una scadenza predefinita) e quindi offrono alle aziende capitali sempre più pazienti e adatti a supportare crescite di lungo termine con un approccio molto industriale e di creazione di valore nel tempo, come necessario nel caso della costruzione dei cosiddetti “poli industriali”, estremamente efficaci a risolvere il noto problema della dimensione spesso troppo piccola delle nostre imprese, ma che per essere realizzati e portati a termine necessitano di tempistiche molto lunghe e di un elevatissimo coinvolgimento da parte degli investitori stessi. Ed essendo spesso operatori di matrice “industriale”, come nel caso di molti family offices o, nelle operazioni più piccole, dei business angels, il loro apporto allo sviluppo delle società partecipate va spesso ben oltre a quello di carattere puramente finanziario.

Intendiamoci: le regole ci devono essere e devono essere rispettate da tutti, ma devono essere adeguate alla specifica situazione degli operatori o investitori presi in considerazione, tenendo soprattutto conto di quel criterio di proporzionalità che consenta di non sovraccaricare di eccessivi vincoli o (costosi) adempimenti gli operatori più piccoli, che spesso sono anche quelli più giovani e dinamici.

Il mondo cambia e si evolve e l’attività di private equity di certo non farà eccezione. Facciamo quindi in modo di agevolare al massimo questo suo processo di “maturazione” e di sempre maggiore articolazione a vantaggio delle nostre imprese.

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