Negli ultimi anni l’industria del luxury è diventata più sensibile al tema ambientale. Ma l’innovazione non azzera il rischio greenwashing, che è sempre dietro l’angolo e si estende ben oltre ai marchi del fast-fashion
Quando si parla dell’impatto ambientale dell’industria tessile, si finisce molto spesso per parlare del modello insostenibile e altamente inquinante del fast-fashion, basato sulla produzione su larga scala e sulla vendita di capi di abbigliamento per lo più scarsa qualità, dunque con una vita breve, venduti a prezzi bassissimi: fattore che spinge i consumatori ad acquistare sempre di più.
Va da sé che l’approccio adottato dal modello fast-fashion sia in assoluto quello più gravoso sull’ambiente, tanto per le conseguenze che questo ha sui nostri ecosistemi – ne sono una manifestazione evidente le discariche a cielo aperto di vestiti in Ghana o quello di Atacama in Cile –, quanto per le condizioni di lavoro della manodopera, composta a volte anche da minori, che prevedono turni infiniti, salari bassissimi e totale assenza di norme igieniche e di sicurezza.
Eppure, numerosi sono i marchi di fast-fashion che stanno cercando di ripulire la loro immagine con operazioni raffinatissime di greenwashing, o per essere più precisi, di greenlighting, una strategia che prevede la promozione di collezioni etichettate come “sostenibili”, magari solo perché prodotte con materiali riciclati, o con cotone organico, per oscurare l’impatto ambientale complessivo dell’azienda.
Alta moda: quando il green fa tendenza
In questo quadro, limitarsi ad analizzare (e additare, seppur a ragione) le sole industrie di fast-fashion significa ignorare l’elefante nella stanza: l’alta moda. L’haute couture, ad oggi, costituisce una fetta in crescita del mercato del tessile nonché un’importante fonte di fatturato. Secondo un rapporto di Bain & Co. e Altagamma, infatti, nel 2023 il mercato di lusso rappresentato da beni personali (abbigliamento, accessori e beauty) ha superato i 360 miliardi di euro in ricavi, chiudendo l’anno con un tasso di crescita dell’11-13%.
L’alta moda è un’osservata speciale del settore anche per quel che riguarda il tema ambientale. Inizialmente scettiche sull’adozione di pratiche environmental-friendly, come ad esempio il riciclo, molte delle principali case del luxury abbracciano ora l’innovazione green, spinte in massima parte dalla crescente consapevolezza ambientale dei consumatori che sono sempre più propensi a scegliere capi di abbigliamento prodotti in maniera etica e sostenibile.
Nell’ambito dell’industria del fashion, la sostenibilità si è affermata negli ultimi anni come tendenza principale a cui tutte le aziende, volenti o nolenti, hanno dovuto adeguarsi. Bisogna prenderne atto: la parola sostenibilità non si riferisce più solo a business rispettosi dell’ambiente, ma costituisce a tutti gli effetti una strategia di marketing irrinunciabile per qualunque brand che voglia mantenere la propria competitività di lungo periodo sul mercato. Come ha dichiarato al Corriere Emanuela Prandelli, professoressa associata al Dipartimento di Tecnologia e Management all’Università Bocconi di Milano, “nel mondo del lusso paradossalmente la sostenibilità non può essere un lusso, ma rappresenta quello che in marketing viene chiamato un fattore igienico, ovvero un elemento che se presente non desta particolare sorpresa, ma se assente diventa motivo di profonda insoddisfazione”.
Eppure, anche la sostenibilità ha un prezzo, e per giunta spesso molto elevato. Non c’è da meravigliarsi: decarbonizzare il settore tessile e ridurre le emissioni complessive lungo tutta la catena di approvvigionamento comporta inevitabilmente un aumento dei costi di fabbricazione. Questo può portare ad un ridimensionamento della produzione e dei volumi di vendita, ed un aumento dei prezzi del cartellino. La logica di questa equazione alimenta la distanza tra il mondo del lusso e i consumatori, e potrebbe costare un allontanamento di quella fetta di acquirenti con meno disponibilità economiche, rendendo capi più sostenibili appannaggio di pochissimi.
Un altro dubbio lecito riguarda l’accostamento stesso del termine “sostenibilità” al modello economico che sostiene il settore dell’alta moda. Se è vero che dal punto di vista della produzione si stanno facendo dei passi avanti importanti, soprattutto sul fronte dell’upcycling (pratica che prevede il riutilizzo di materiali di scarto per la creazione di abiti di maggior valore), non si possono non prendere in considerazione le tendenze legate al consumo, che restituiscono un’immagine piuttosto preoccupante sul piano globale. Come sottolineato da un’analisi condotta da McKinsey nel 2016, la produzione di capi di abbigliamento è raddoppiata dall’inizio del secolo, con il consumatore medio che ha aumentato i suoi acquisti per capita del 60% tra il 2000 e il 2014 conservandoli tuttavia nel proprio armadio per metà del tempo, prima di gettarli. Anche le case di alta moda, pur abbracciando pratiche più sostenibili, rientrano in questa dinamica. In fondo, anche loro, come ogni azienda inserita in un meccanismo di libero mercato, hanno come obiettivo ultimo quello di vendere di più per incrementare i propri guadagni.
A questioni che hanno per lo più a che fare con considerazioni terminologiche di natura etico-morale, si aggiunge poi un problema sostanziale che a che fare con le certificazioni di sostenibilità e con le cosiddette self-assessed labels. Secondo il report License to Greenwash pubblicato nel 2022 dalla fondazione olandese Changing Markets, ciò che accomuna le dieci certificazioni più diffuse legate al settore della moda sostenibile è la mancata considerazione del ciclo di vita completo dei prodotti (dal quale è escluso quasi sempre lo smaltimento) nonché uno scarso livello di trasparenza, entrambi aggravati dalle pressioni e all’influenza dei grandi marchi a cui sono costantemente soggette.
Basti pensare che una recente indagine condotta dal Joint Research Centre della Commissione Europea sulle dichiarazioni di sostenibilità nel settore tessile ha ipotizzato che circa il 39% di queste siano false o quantomeno ambigue. E se è vero che sono i marchi del fast-fashion i principali fautori di queste pratiche commerciali sleali, non possiamo permetterci di abbassare la guardia neppure quando ci troviamo davanti a capi di lusso. Per quanto nel settore dell’alta moda il fenomeno del greenwashing sia meno sistemico, la probabilità di essere ingannati da etichette mendaci rimane molto alta: anche i brand di lusso, ricorrono spesso alle tecniche di inganno del fast-fashion, spacciando ad esempio come sostenibili capi di abbigliamento che contengono una minima percentuale di fibre riciclate rispetto al totale.
In questo senso, va accolta con grande ottimismo l’approvazione della nuova direttiva UE Empowering consumers for the green transition che inserisce il greenwashing nell’elenco delle pratiche commerciali vietate, e che, in mancanza di prove concrete a supporto, bandisce per l’etichettatura dei prodotti l’utilizzo di diciture vaghe come “rispettoso dell’ambiente”, “rispettoso degli animali”, “verde”, “naturale”, “biodegradabile”, “a impatto climatico zero”, e di indicazioni generiche sul sistema di compensazione delle emissioni, come “carbon neutral” o “climate positive”.
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Una lunga strada verso la sostenibilità
In generale, dobbiamo riconoscere gli sforzi sempre maggiori che il settore dell’alta moda sta compiendo per rendere i propri modelli di business più circolari, sostenibili ed etici. Tra le pratiche più virtuose, aumenta il ricorso a fibre riciclate, crescono gli investimenti sul second-hand e vengono gradualmente abbandonate le pellicce. Si tratta di segnali significativi che non vanno sminuiti, in quanto dimostrano come anche il settore del luxury abbia intrapreso un percorso positivo di innovazione e trasformazione verso un utilizzo più responsabile delle risorse e una riduzione dell’impatto ambientale. Ciò detto, va ribadito che la strada da fare è ancora lunga.
Al di là dei miglioramenti che possono essere apportati ed implementati nel ciclo produttivo degli abiti, la sfida più grande rimane però quella legata alla sovrapproduzione, un fenomeno ancor più radicato e sistemico del greenwashing. Secondo i dati dell’Agenzia statunitense per la protezione ambientale (Epa), sono 17 milioni le tonnellate di tessuti prodotte ogni anno nel mondo.
Come ha dichiarato un revisore sociale italiano nell’ambito di un’inchiesta di Altreconomia, anche il mercato del lusso “si è sempre più trasformato in fast fashion: si è andati verso una maggiore frammentazione degli ordini con minori tempi di consegna”. Dal momento che “la competizione tra i marchi del lusso si gioca sulla capacità di arrivare al negozio il più velocemente possibile”, l’urgenza di produrre tessuti più sostenibili in tempi record “porta a stressare la catena di fornitura”, e di conseguenza a compromettere la qualità dei capi.
Riconsiderare il ciclo tradizionale della moda, anche quella di lusso, richiede un ripensamento strutturale dell’attuale modello industriale, decisamente insostenibile. Un’inchiesta del Wall Street Journal ha rivelato che nel 2018 la maison britannica Burberry avrebbe distrutto capi rimasti invenduti per un valore di 38 milioni di dollari.
Occorre essere onesti: fermare il surplus produttivo del settore tessile è l’unico modo per rendere quella della sostenibilità una realtà tangibile – tanto nella produzione quanto nel consumo responsabile – e non soltanto un’idea astratta, utilizzata al solo scopo di massimizzare i profitti a spese del pianeta, e delle tasche dei consumatori.
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