La  questione industriale è certamente determinante per la soluzione del problema ambientale ed economico ma la direzione strategica non può che dipendere da una scelta forte di politica industriale, per una rinascita economica italiana ed europea ed un posizionamento indipendente nello scenario industriale mondiale. Questo assunto logico sembra entrato finalmente, e con grave ritardo, anche nella dialettica europea, come si evidenzia dall’entusiastica accoglienza del cosiddetto mainstream al recente rapporto Draghi sulla competitività del continente. In uno scenario di acerrima concorrenza per la conquista del dominio industriale globale “carbon free”, l’Unione Europea del Green Deal ha sviluppato grandi capacità di microregolazione normativa e senza dubbio ottenuto il primato dello standard ambientale più articolato e rigido del mondo: dal plastic-free al suicida bando delle automobili a combustione, sino alla casa green. Ma mentre a Bruxelles si discuteva delle tonalità del verde, nel mondo, e soprattutto in Cina, si conquistavano risultati industriali impressionanti e dominanti tanto per le energie rinnovabili quanto per la mobilità elettrica. Mentre in Europa si passava da un tavolo tecnico a un altro, sempre alla ricerca del compromesso tra interessi divergenti,negli Stati Uniti si adottava con rapidità l’IRA (Inflaction reduction act), una legge a forti tinte protezionistiche, per tutelare l’industria e il lavoro nazionale; a investire nella conquista di miniere di terre rare e cobalto, nella riconquista industriale e nella protezione della supply chain nazionale,  e nella costante produzione di eco-innovazioni. L’Europa del sogno Green Deal si trova quindi tra l’incudine americana dell’Ira e il martello cinese del Made in China, soprattutto, a mio parere, per il progressivo declino dello spirito industriale.

Il brusco risveglio

La crisi dell’auto elettrica, vera e proprio icona della transizione ecologica, è il brusco risveglio dal sogno green europeo e il ritorno ad  una concreta e amara realtà, rispetto all’entusiastico e molto ottimista eccesso di aspettative. Il  mercato dell’auto elettrica cresce un po’ ma non decolla come ci si aspettava, stretto dai vincoli dei prezzi alti e della scarsità delle colonnine di ricarica, e molte case automobilistiche sembrano pronte a una parziale marcia indietro. Volvo, ad esempio, ha deciso di modificare le sue ambizioni in materia di elettrificazione in considerazione delle mutevoli condizioni di mercato e delle richieste dei clienti e ha rinunciato, per la netta decrescita della domanda, all’obiettivo di vendere solo modelli di ultima generazione entro il 2030. Anche  Porsche e Mercedes hanno sostanzialmente ridimensionato i loro piani per l’elettrico. In Italia Stellantis ha congelato il progetto sulla gigafactory di Termoli, mentre in Germania è stato sospeso quello di Kaiserslautern. In Italia, la quota di auto elettriche, pur essendo in crescita, rappresenta ancora una piccola minoranza rispetto al totale delle auto circolanti. Secondo i dati aggiornati al 2023, circa il 4% delle auto nuove immatricolate in Italia è elettrico. Tuttavia, in termini di veicoli elettrici effettivamente circolanti, la percentuale è ovviamente inferiore, attestandosi intorno al 2% del parco auto totale. A livello europeo, la quota di auto elettriche è più alta, ma il mercato dell’auto elettrica stenta a decollare un po’ ovunque. La Germania è il più grande mercato per le auto elettriche in termini assoluti, con una quota di mercato che supera il 15% delle nuove immatricolazioni, e una quota circolante di circa il 3-4%. La Francia e  il Regno Unito seguono, con una quota di auto elettriche nuove intorno al 13-14%, e una quota circolante più bassa, ma in crescita costante. A livello complessivo dell’Unione Europea, le auto elettriche hanno superato il 10% delle nuove immatricolazioni, ma rappresentano circa il 2-3% del parco auto totale.

Obiettivi irrealistici e dannosi

Dati questi numeri si può osservare che l’auto elettrica non sta incidendo in maniera significativa alla decarbonizzazione dei trasporti, e che il mercato delle auto elettriche pur in ascesa è ancora in una prima  fase di sviluppo del ciclo di vita, sia dal punto di vista tecnologico che da quello commerciale. E si può, osservando che la crescita per una serie di ragioni è molto più lenta del previsto, affermare che la sostituzione della produzione di auto termiche entro il 2035 è irrealistica, oltre che  dannosa per l’industria europea, considerato che gran parte della filiera è controllata da competitor cinesi. E si può  infine realisticamente pensare all’auto elettrica per quello che è: ovvero semplicemente un segmento della più ampia e diversificata gamma dell’offerta automobilistica  europea.

Il caso italiano: un declino “solitario”

Tuttavia il caso della crisi dell’industria automobilistica italiana non dipende dai mancati risultati del mercato dell’auto elettrica. Infatti l’industria automobilistica italiana ha visto un declino significativo nella produzione di autovetture dagli anni ’90 ad oggi. Da quasi 2 milioni di unità prodotte nel 1990, la produzione è scesa a poco più  di 500mila unità nel 2023. Questo calo riflette una serie di fattori, tra cui la globalizzazione, la crisi economica, la ristrutturazione industriale e anche, ma evidentemente non solo,  le sfide associate alla transizione verso la mobilità elettrica. Nel  1990, l’Italia era ancora uno dei principali produttori di automobili in Europa. La produzione annuale di autovetture in Italia in quell’anno è stata di circa 1,9 milioni di unità, un’epoca di grande produttività per le fabbriche italiane, con la Fiat che dominava il mercato italiano. Nel 2000, la produzione di autovetture in Italia inizia  a diminuire, riflettendo i cambiamenti nel mercato automobilistico globale e la crescente concorrenza internazionale. La produzione italiana si attesta a circa 1,74 milioni di  unità. Nel 2010, l’industria automobilistica italiana subisce un ulteriore calo, principalmente a causa della crisi economica globale e della ristrutturazione interna di Fiat, e la  produzione si riduce  a circa 573 mila  unità. Nel 2023, Stellantis ha prodotto in Italia 752 mila  veicoli, di cui 521mila autovetture. Nel 1990 in Italia sono state vendute 2,2 milioni di autovetture, a fronte di una produzione di 1,9 milioni; in Francia le auto vendute sono state 2,3 milioni e ne sono state prodotte 3,3 milioni; in Germania nello stesso anno sono state vendute 3,5 milioni di autovetture e ne sono state prodotte 4,6 milioni. Più di 30 anni dopo, nel 2023, in Italia sono state vendute 1,6 milioni di autovetture e ne sono state prodotte poco più di 500 mila; in Francia sono state vendute 1,8 milioni e prodotte 1,4 milioni; in Germania sono state vendute 3,5 milioni di auto e ne sono state prodotte 4,8 milioni. Nel 1990 Fiat dominava il mercato italiano con una quota di  circa il 40% ; nel 2020 è scesa a circa il 15% del mercato e nel  2023 , con 175.000 unità vendute, Stellantis detiene una quota pari all’11,1%. Quindi in questi decenni mentre l’industria automobilistica francese e soprattutto quella tedesca hanno sostanzialmente tenuto botta alla concorrenza globale, il declino della produzione è stato un fenomeno italiano: in Italia nel 1990 si producevano 1,9 milioni di autovetture, nel 2023 poco più  di 500 mila; in Germania nel 1990 sono state prodotte 4,6 milioni di auto, nel 2023 4,8 milioni.

Che cosa rappresentava Fiat

Numeri freddi e impietosi che rappresentano come, in nome della mano invisibile del mercato globale e non solo, sia avvenuto, e  neanche troppo lentamente, il chiaro declino dell’industria automobilistica italiana, solo parzialmente accentuato negli ultimissimi anni dal mancato atteso sviluppo commerciale  delle auto elettriche. Fiat non era solo un’azienda automobilistica, ma anche un pilastro sociale in Italia. Negli anni ’60 e ’70, Fiat impiegava decine di migliaia di lavoratori, con un imponente indotto, contribuendo significativamente alla stabilità economica e allo sviluppo della cultura industriale nazionale. Il ruolo di Fiat nello sviluppo del mercato automobilistico italiano e della cultura industriale è stato cruciale. Ha trasformato l’Italia in uno dei principali produttori automobilistici in Europa e ha avuto un impatto duraturo sull’economia, la società e la cultura del Paese. Dall’accessibilità delle automobili alla leadership nell’innovazione, Fiat ha lasciato un’impronta indelebile nella storia dell’automobile in Italia e dell’industria nazionale. Ma tutto questo è storia economica.

Con Stellantis solo una frazione…

Poi è arrivata Stellantis, oggi uno dei principali gruppi automobilistici a livello globale, nato nel 2021 dalla fusione tra il gruppo italo-americano Fiat Chrysler Automobiles e il gruppo francese PSA Peugeot-Citroën. Una multinazionale automobilistica con un portafoglio di 14 marchi automobilistici tra cui Fiat, Jeep, Peugeot, Citroën, Maserati, Alfa Romeo, Lancia, Chrysler, e Opel. La produzione di Stellantis in Italia rappresenta oggi solo una frazione della produzione globale del gruppo, tra il 10 e il 15%, concentrata su alcuni modelli strategici, soprattutto per i marchi Fiat, Alfa Romeo, Jeep e Maserati, nelle fabbriche principali di Mirafiori, Melfi, Cassino, Pomigliano d’Arco, e Modena. Stellantis  ha numerosi impianti in Francia, Spagna, Germania, Polonia, Serbia, che contribuiscono a circa il 30-35% della produzione globale del gruppo, con la Francia e la Spagna come principali centri produttivi. Gli Stati Uniti, il Canada e il Messico sono centrali per Stellantis, specialmente per la produzione dei marchi Jeep, RAM e Chrysler. Il Nord America rappresenta circa il 35-40% della produzione globale del gruppo, con un focus su SUV, pick-up, e veicoli di grandi dimensioni. L’America Latina, con il Brasile e l’Argentina come principali centri di produzione, contribuisce a circa il 10% della produzione globale. Stellantis è un leader di mercato in questi paesi, con una forte presenza dei marchi Fiat e Peugeot. Sebbene Stellantis stia espandendo la sua presenza in Asia, in particolare in Cina e India, e abbia operazioni in Africa, questi mercati rappresentano una quota più ridotta della produzione totale, stimata intorno al 5-10%.

Fotografia attuale

Per comprendere il declino della produzione automobilistica italiana, alla sua nascita nel 2021 Stellantis contava in Italia 51.300 addetti, diminuiti oggi a 42.700. Nel bilancio consolidato di Fca nel 2004 (anno dell’esordio da ceo di Marchionne) gli addetti a livello globale erano 160.549,  di cui 71.329 in Italia. Dal 2004 ad oggi gli occupati nel settore automobilistico in Italia, dipendenti dal gruppo Fiat-Stellantis, sono diminuiti di oltre 28.000 unità. D’altra parte si potrebbe pensare che oggi il futuro della produzione di automobili sia una questione di scelte aziendali e  di opportunità di mercato, tanto per la produzione quanto per gli  sbocchi commerciali: mentre Fiat come detto era Italia, Stellantis è una multinazionale con sede legale ad Amsterdam, e con sede operativa e finanziaria a Londra. Stellantis è una società per azioni quotata in borsa con azionariato diffuso. Le azioni di Stellantis sono quotate sulle borse di Milano, Parigi e New York. Stellantis è controllata da un mix di entità pubbliche e private, con Exor della famiglia Agnelli che detiene la quota più significativa, il 14,4%, seguita dalla famiglia Peugeot, che detiene circa il 7,2%, da BPIFrance,  una banca di investimento pubblica francese che possiede il 6,2%, e dalla  casa automobilistica cinese Dongfeng, che aveva una partecipazione in PSA, e che detiene circa il 4,5% .

Questione nazionale

Ma se il destino di Stellantis lo decidono la proprietà e  il management di Stellantis, il destino dell’industria automobilistica italiana è però una questione di interesse nazionale. Può la seconda manifattura d’Europa, la patria di Fiat, Ferrari, Maserati, Alfa Romeo, Lancia, Bugatti, Lamborghini, può l’Italia,  con un patrimonio unico di cultura industriale, rinunciare ad avere un ruolo da protagonista per la produzione di automobili, siano queste  termiche, elettriche, ibride, a biocombustili, a idrogeno? La domanda è ovviamente retorica.  La risposta  è facile: non può e non deve. L’obiettivo è chiaro: aumentare la produzione italiana di autovetture, riportare la fabbrica al centro dell’immaginario collettivo, tornare allo spirito industriale. La soluzione sembra complessa, ma in Italia non mancano coraggio e capacità.

Riproduzione secoloditalia.it

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