A Genova c’è un luogo dove la pasticceria si fa arte. È la Pietro Romanengo fu Stefano, piccola azienda a conduzione familiare fondata oltre due secoli fa. Materie prime scelte con cura e ricette della tradizione che il titolare, Pietro Romanengo, condivide con i nuovi assunti, che vengono educati a un lavoro fatto di pazienza e voglia di imparare
Era il 1780 quando a Genova nasceva la più antica confetteria italiana, quella Pietro Romanengo fu Stefano – 2 milioni di euro di fatturato nel 2023 e 38 dipendenti – che, tra gli altri, ha avuto come clienti a dir poco affezionati Giuseppe Verdi, grande appassionato di canditi, ma anche la Regina Elena, che chiese venisse replicato un torrone tipico del Montenegro.
Guidata da una famiglia di artisti bottegai, come ama definire la propria Pietro Romanengo volendo dare una precisa connotazione all’impegno che prosegue negli anni, l’azienda con storico quartier generale a Genova e tornata nel 2022 a deliziare pure i milanesi con le sue caratteristiche creazioni dolci, porta ancora avanti il progetto di un modus vivendi improntato al decorso lento della natura, declinato attraverso le dimensioni contenute e la gestione all’antica maniera dei cinque reparti autonomi che realizzano le meraviglie zuccherine offerte al pubblico dalla Pietro Romanengo fu Stefano.
“Agli inizi eravamo speziali, nel senso che ci occupavamo di cacao, caffè, zucchero ed altre cose che arrivano al porto da terre lontane, mentre successivamente ci specializzammo in canditi e confetti genovesi mantenendo sempre un solido contatto con quanto accadeva a Parigi, assoluto punto di riferimento per chi come noi aveva laboratori in cui si faceva tutto a parte la pasticceria – spiega Pietro Romanengo (nella foto in alto), titolare della golosa Pmi ligure –. Un modello, quello parigino che ci ha avvicinato pure alla produzione di marmellate, cioccolata, liquori, facendoci così diventare leader cittadino. Realtà sicuramente piccola, ma molto specializzata”.
Giustamente orgogliosa, per esempio, di mettere sul mercato un cioccolato a cui servono 72 ore per affinare il proprio sapore – “una lunga procedura che ormai non utilizza più nessuno”, conferma Romanengo –, la storica azienda genovese continua a far felici generazioni di fedeli consumatori soprattutto dei suoi famosi canditi. “Eppure anche noi abbiamo vissuto un periodo pieno di dubbi, in cui è stato necessario trovare la strada per non farci schiacciare da una concorrenza piuttosto variegata. E così, ad un certo punto, siamo comunque arrivati a dover dar risposta ad un’impegnativa domanda: proseguire nel solco della tradizione familiare o fare altre scelte. E io ho deciso di andare avanti, continuando a non usare additivi ma solo aromi naturali e facendo sempre riferimento ai ritmi lenti dettati dalla natura per creare ciò che poi, conseguentemente, risulta avere un costo maggiore rispetto alla media”.
Questo anche perché gli ingredienti usati nella quotidiana produzione della Pmi genovese, pur non potendo essere esattamente a chilometro zero, oltre ad essere di altissima qualità sono ormai in alcuni casi di difficile reperimento sul territorio nazionale. “Qui intorno a noi prendiamo le arance, il chinotto di Savona, le rose con cui facciamo, utilizzando i petali, una confettura e lo sciroppo, ma tutto il resto lo andiamo a cercare come da tradizione fuori dalla Liguria – sottolinea Romanengo –. Pochi mesi fa volevamo i fichi di Chieti e ne abbiamo trovati pochi, la nocciola delle Langhe non c’era sul mercato quest’anno, la manna siciliana di Capaci è al momento complicatissima da reperire, mentre i pinoli di Pisa sono ormai introvabili. Quindi non un periodo senza problemi per chi, come noi, ha il vizio di ricercare sempre e comunque il meglio per far sì, per esempio, che i clienti continuino a cambiare piacevolmente espressione nel momento in cui assaggiano il nostro spicchio di clementina candito”.
Nonostante queste complessità a cui dare costantemente risposta, l’azienda ligure prosegue nell’opera di orgogliosa divulgazione di ricette della tradizione, che talvolta hanno origine molto lontano da Genova. “Il candito, che resta sempre il prodotto del cuore per me e molti miei concittadini, è figlio del salto culturale fatto molto tempo fa dagli Arabi in Mesopotamia, quando teorizzarono e poi misero in pratica la conservazione della frutta. I primi canditi erano fatti con scorza di limone e melassa, connubio che, tra le altre cose, permetteva a chi andava per mare di poter contare su quella vitamina C indispensabile per mantenere una buona salute. Tradizione che, per esempio, ha sempre unito liguri e siciliani”.
Nel frattempo la Pietro Romanengo fu Stefano, che non soffre come altri dei problemi generati da un forte turnover aziendale, ha appena assunto tre giovani senza esperienze nel settore a cui verrà insegnato per prima cosa l’amore per questo tipo di lavoro. “Preferiamo prendere con noi bravi ragazzi e ci interessa solo abbiano voglia di imparare, di condividere il forte sentimento di appartenenza che dimostra giornalmente chi lavora con noi. Qui il turnover è tangibilmente assente: le persone, infatti, rimangono in azienda a lungo e lo fanno con piacere”.
Pronti, infine, a pianificare qualche fisiologico cambiamento per non farsi trovare impreparati di fronte al passare del tempo, i vertici di Pietro Romanengo fu Stefano sanno di dover dare corso a quello sviluppo ormai indispensabile. “Lo stare fermi spesso finisce per dare spazio al declino e noi invece abbiamo necessità di crescere. Perciò, mentre terremo attive per motivi di cuore la confetteria e soprattutto la vecchia fabbrica, pur se insufficiente per seguire i ritmi produttivi odierni, prima o dopo sposteremo parte della struttura su un terreno tra Liguria e Piemonte di proprietà di un nostro socio. L’idea di base, comunque, resta quella di ampliare il settore del retail, non di diventare un’industria”, conclude Pietro Romanengo.
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