Sono in aumento i dipendenti che lavorano da remoto in un Paese dove il loro datore di lavoro non ha una propria sede. A utilizzare questa formula sono soprattutto le grandi aziende appartenenti al settore manifatturiero. Lo rivela un paper realizzato dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano

Non più solo soluzione emergenziale o benefit aziendale, lo smart working si è trasformato in un nuovo paradigma lavorativo che continua a evolversi. Se fino a pochi anni fa il lavoro da remoto era sinonimo di flessibilità all’interno dei confini nazionali, oggi a farsi strada è anche un nuovo fenomeno: lo smart working internazionale. Con l’espressione si intende quando un dipendente lavora da remoto in un Paese dove il suo datore di lavoro non ha una propria sede. Ad esempio, un marketing specialist italiano che lavora dalla propria abitazione in Italia per un’azienda che ha sede negli Stati Uniti o in qualsiasi altro paese estero, con contratto di lavoro italiano, o in alternativa un ingegnere tedesco che lavora per un’azienda con sede in Italia dalla propria abitazione in Germania, con un contratto di lavoro tedesco.

A fotografare questa tendenza è uno studio realizzato dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano con il supporto tecnico di Eca Italia (società attiva nel settore della consulenza per la gestione del personale espatriato), secondo cui lo sviluppo di questo modello lavorativo ha preso piede a partire dalla pandemia che ha rappresentato un punto di svolta per lo smart working in generale, accelerandone l’adozione. In base alla ricerca, il 29% delle aziende di medio grandi dimensioni (250-1000 dipendenti) coinvolte nello studio ricorre allo smart working internazionale contro il 4% delle Pmi. In entrambi i casi le più attive sono le aziende del settore manifatturiero. Il 53% delle imprese di medio-grandi dimensioni studiate è rappresentato da gruppi internazionali, dato che evidenzia la necessità di una struttura organizzativa matura per poter implementare questo modello di lavoro.

Le principali motivazioni che spingono le grandi imprese ad adottare iniziative di smart working internazionale sono strettamente legate alla carenza di competenze specializzate: il 45% delle grandi imprese dichiara di ricorrere all’assunzione o al lavoro da remoto stabile in Paesi in cui l’organizzazione non è presente per attrarre profili con competenze tecniche scarsamente reperibili. “È a tutti nota la presenza di un mismatch tra domanda e offerta di lavoro: le aziende stanno soffrendo in modo crescente la scarsità di offerta relativa a profili specialistici, con le maggiori criticità legate al reclutamento di risorse di provenienza e formazione Stem”, sottolinea a questo proposito Andrea Benigni, ceo di Eca Italia. “In questo contesto, la soluzione organizzativa favorita dallo smart working internazionale permette alle direzioni risorse umane di poter attingere a potenziali candidati sia in Italia che nella Ue”. Tra le altre motivazioni che spingono le grandi imprese ad adottare iniziative di smart working internazionale, il 31% indica la retention di talenti (la capacità di un’azienda di trattenere i propri dipendenti nel lungo periodo), mentre il 17% ritiene il lavoro da remoto all’estero una leva per l’esplorazione e lo scouting di mercati internazionali dove la capogruppo italiana non ha ancora aperto una propria sede. Per le Pmi, invece, il ricorso a questo strumento risiede soprattutto nell’esigenza di espandersi in Paesi in cui l’organizzazione sta valutando di aprire altre sedi (30%).

Tra le difficoltà maggiori primeggia, sia per le grandi imprese (48%), sia per le Pmi (50%), la gestione degli aspetti previdenziali. Per le grandi imprese, la seconda criticità più rilevante è legata alla gestione degli aspetti fiscali; per le piccole e medie aziende, invece, la gestione degli aspetti previdenziali è seguita dalla complessità delle pratiche burocratiche all’estero (34%). Tra i principali rischi nella gestione dello smart working internazionale, nelle grandi imprese prevalgono la perdita di senso di appartenenza e la riduzione dell’engagement, il senso di isolamento e le difficoltà di integrazione e disallineamento rispetto ai valori aziendali. Nelle Pmi il rischio maggiore, per contro, è rappresentato dalla gestione in sicurezza dei dati, seguito dalla difficoltà di integrazione con il team di lavoro.

Accanto al lavoro da remoto internazionale, va facendosi strada anche il distacco virtuale. Si tratta del conferimento di un incarico all’estero a un dipendente di una società dello stesso gruppo aziendale che sarà ubicata, ad esempio, in Germania. Il dipendente tedesco, assunto dalla filiale tedesca, lavorerà per la società italiana, rendendo la sua prestazione in remoto dalla Germania. Il dipendente tedesco entrerà pertanto a far parte virtualmente del team italiano, anche se la sua intera prestazione sarà resa dalla Germania. Il distacco virtuale è diffuso nel 13% delle grandi imprese, che possono fare leva sulla presenza di una struttura/filiale estera dove individuare un potenziale candidato. Tra i settori in cui trova maggiore applicazione spicca il manufatturiero, adottato dal 70% delle imprese con all’attivo iniziative di international smart working.

Riproduzione: Repubblica.it

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