Nata nel 1986 dalle menti creative di Massimo Gino e Mario Pedol, Nauta Design si è distinta nel panorama nautico inizialmente come cantiere costruttore di yacht a vela eleganti e con una significativa impronta innovativa. Col tempo, l’azienda ha virato verso attività di design e intermediazione, focalizzandosi sulla progettazione di yacht a motore e a vela, offrendo anche attività di consulenza e gestione dei progetti.

Oggi, strutturata come una vera e propria factory di yacht design, Nauta Design crea linee esterne e/o progetti d’interni per imbarcazioni dai 30 ai 130 piedi, ma è arrivata anche a firmare l’estetica di “AZZAM”, che con i suoi 180 metri di lunghezza è il più grande giga yacht privato al mondo.

Il successo di caratura planetaria dello studio milanese, è certificato dalle numerose collaborazioni che hanno segnato la sua attività, passati realizzando sia modelli di produzione seriale per cantieri di primaria importanza come Beneteau, Lagoon, Grand Soleil e Pardo Yachts, sia yacht semi o full custom, cioè dedicati al singolo armatore, combinando armoniosamente estetica e funzionalità ma anche, grazie alla collaborazione con rinomati studi di architettura navale, capaci di garantire prestazioni di alto livello.

Abbiamo avuto il piacere di intervistare Mario Pedol al termine di un’intensa stagione di saloni nautici, dove sono state esposte diverse barche disegnate da Nauta Design.

PressMare – Mario Pedol come si fa a far nascere negli armatori non solo la voglia di barca ma di un preciso modello, quanto influiscono il design e l’architettura, e quali sono le leve che si utilizzano in questo processo?

Mario Pedol – Disegno barche da quasi 40 anni, immaginando il loro utilizzo come se stessi a bordo, bisogna calarsi completamente nel progetto per poter offrire al cliente una barca che funzioni sotto il profilo tecnico ed estetico, e della qualità dell’esperienza… Credo che la cosa migliore sia quella di seguire la propria filosofia generale, è poi il mercato stesso a premiarti per il tuo stile senza necessariamente dover per forza inventare qualcosa di diverso.

PM – Che esperienza ha come diportista?

MP – Sono stato sempre un grande appassionato del mare e della navigazione, innanzi tutto per background familiare, perché mio nonno materno ha navigato tutta la vita, è stato direttore di macchina sui transatlantici Saturnia e Vulcania, e lui mi ha sicuramente contagiato, mi ha introdotto il virus. Crescendo, da ragazzo ho sempre amato le barche, ho fatto regate, poi delle belle crociere e nel periodo universitario un amico che aveva la stessa passione mi convinse a entrare nel mondo delle costruzioni nautiche realizzando un minitonner, che era una classe nascente in quel periodo.

Andammo da Andrea Vallicelli, già al tempo uno dei progettisti più quotati, che ci disegnò questa barca di 7 metri, l’Avventura 703. Ebbe un grande successo e quello che era iniziato come un gioco finì come una grande esperienza formativa perché alla fine ne costruimmo 40 in due anni, vendendone otto al debutto durante il Salone di Genova. Dopo questa esperienza, sono andato avanti con sempre più passione nel mondo della nautica, prendendo la rappresentanza italiana per la Oyster Marine. Successivamente ho voluto approfondire l’aspetto progettuale. In quegli anni era nato a Milano, presso l’istituto Superiore di Architettura e Design, un corso specialistico di progettazione per la nautica da diporto, dove insegnavano professionisti di spessore come Gregori Grgič, De Simoni, Ceccarelli, Vallicelli…

PM – Il top dei progettisti nautici, il gotha degli yacht designer italiani…

MP – Ho imparato molto da loro, frequentare quei corsi è stata un’esperienza unica:oltre alla pura ingegneria, comel’idrostatica delle navi, ma che poco ha a che fare con le barche, c’erano lezioni  tenute da professionisti del settore nautico che quindi ci facevano lavorare su cose concrete, pratiche.

PM – Poi disegnò la sua prima barca a vela…

MP – Avevo appena finito un tirocinio in America, nello studio di Scott Kaufman a New York, quando con Massimo Gino abbiamo disegnato la nostra prima imbarcazione, il Nauta 54. Era il 1986.

PM – Qual è stata invece la sua prima barca a motore?

Bertram, lavorammo con loro dal 1992 al 95. È un brand americano di grande prestigio e al tempo cercavano un nuovo designer per dare un tocco di design italiano agli interni della loro nuova gamma. Vincemmo la gara per disegnare gli interni del loro 43 piedi. Fu un grande successo, la proposta piacque molto al mercato e così ci affidarono il restyling degli interni dell’intera gamma, che hanno continuato a proporre per una decina d’anni. Fu molto interessante perché quello dei motoryacht era un mondo che ci aveva sempre affascinato.

PM – Tornando al discorso iniziale, per fare una barca che funzioni sul mercato, quindi, attinge all’esperienza di costruttore, alla conoscenza delle regole del mercato, alla preparazione tecnica e all’esperienza come utilizzatore di barche…

MP – Bisogna ragionare sul progetto con una mentalità aperta, guardando sempre in avanti. Il periodo di gestazione di un nuovo modello è, infatti, sempre lungo, ci vogliono almeno un paio d’anni per vedere la barca finita: e fondamentale avere una visione di come possono evolversi non solo le necessità, ma anche i gusti degli armatori. Per questo è importante avere un legame forte con i cantieri, con gli uffici tecnici, la parte commerciale, il marketing… È un confronto fondamentale ai fini del successo di un nuovo modello.

PM – Al di là delle implicazioni tecniche, qual è il fil rouge che unisce il lavoro di Nauta Design nel disegnare una barca di 30 piedi e uno yacht di 180 metri?

MP – Le scarpe!

PM – Cioè?

MP – Mettersi nelle scarpe degli utenti, che siano proprietari di barche di serie o armatori di giga yacht! Bisogna calarsi completamente nella loro futura esperienza. Quello della produzione in serie e delle barche full custom sono due mondi diversi, per molti aspetti lontani ma il principio è sempre quello, interpretare i loro desideri, capire come utilizzeranno la barca, riuscire a disegnare ciò che stanno sognando.

PM – Vale lo stesso sia per la vela sia per il motore? Quali contaminazioni ci sono fra i due mondi?

MP – Con Nauta, insieme a Massimo Gino, ho cercato di portare nel motore alcuni punti focali intrinsechi della vela, soprattutto l’equilibrio e la purezza degli esterni, enfatizzando la possibilità di vivere la barca all’aperto, ritornando un po’ a quelli che erano i rapporti scafo e sovrastruttura classici, bilanciati, che hanno caratterizzato i motoryacht di qualche decennio fa e che li rendono ancora estremamente eleganti.

PM – Barche in controtendenza rispetto alla ricerca spasmodica di volumi interni che sta caratterizzando il mercato dei motoryacht, dove vediamo spesso modelli sgraziati, con proporzioni ardite…

MP – È indubbio che si stia cercando di offrire più spazio interno, lo facciamo anche noi, ma non a discapito degli equilibri. La barca deve avvicinare l’armatore al mare, in quei brevi periodi nei quali viene utilizzata, d’estate, viene vissuta soprattutto all’esterno e per questo vogliamo offrire spazi all’aperto che siano totalmente godibili, in continuità da poppa a prua, da dentro a fuori, proprio come accade per le barche a vela. Il pozzetto deve essere ampio, i ponti esterni funzionali… Sicuramente non utilizziamo mai il design fine a sé stesso, come un esercizio di stile fatto per arricchire o caratterizzare un modello di serie piuttosto che una nave da diporto. Con le nostre barche andiamo in una direzione diametralmente opposta, verso l’essenzialità del design, la purezza delle forme al di là delle mode.

PM – È così che si crea l’eleganza senza tempo di una barca?

Fare barche che restino belle per sempre è sicuramente nel nostro DNA. Per me è una questione di approccio, di cultura nautica, di sensibilità maturata in tanti anni di mestiere come yacht designer ma anche prima, quando osservavo le barche spinto solo dalla passione.

PM – Quali barche le piacevano?

L’eleganza dei Baglietto Ischia o degli Alalunga Fisherman, barche che hanno caratterizzato il design di quegli anni, la trovo ancora intatta, così come lo stile di certe imbarcazioni americane dell’east coast che ho sempre ammirato, molto marine, molto funzionali.

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