La domanda globale dei semiconduttori nell’ultimo semestre è in calo: dopo anni in cui la richiesta di apparecchi elettronici aveva fatto salire alle stelle anche la domanda dei semiconduttori usati per la loro produzione, il mercato ha raggiunto un livello di saturazione. Tuttavia, in previsione di una ripresa forte nella seconda parte del 2023, gli investimenti delle grandi industrie dei chip nei principali mercati asiatici continuano e così anche gli sforzi dei governi per rafforzare il tessuto industriale domestico. Di fatti, resta prioritario per le grandi potenze mondiali il raggiungimento dell’autosufficienza, anche parziale, nel settore e per i leader il consolidamento delle posizioni di vantaggio competitivo.
Particolarmente attivi negli ultimi mesi sono Giappone e Corea del Sud. Il Giappone, Paese rimasto in ritardo nella competizione per i chip dopo esserne stato leader in passato, tenta di colmare il divario attraendo investimenti e formando partnership con i leader di oggi, coreani e taiwanesi. Dall’altra parte, proprio la Corea del Sud e Taiwan, che già dispongono di una forte base industriale nel settore, lottano per mantenere la propria fetta di mercato e stimolare la produzione interna.
Il Giappone, infatti, si trova a rincorrere: detentore negli anni ‘90 del 50% della quota di mercato, il Paese ad oggi controlla solo il 10% avendo perso il suo predominio con le più competitive Taiwan e Corea del Sud. Tokyo cerca ora di mettere in sicurezza la propria fornitura di semiconduttori perseguendo l’obiettivo al 2030 di portare la vendita di semiconduttori prodotti in patria a 112 miliardi di dollari – più del triplo del dato attuale. A questo proposito, il Governo ha promosso partnership con le aziende leader dell’industria e ha disposto agevolazioni fiscali per facilitare la rilocazione di stabilimenti nel Paese. È in questo contesto che il Giappone è riuscito a finalizzare accordi cruciali come quello con la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC) per l’apertura di uno stabilimento di chip avanzati da circa 7 miliardi di dollari nella provincia del Kumamoto, e con la sudcoreana Samsung per uno stabilimento da 221 milioni a Yokohama. Ma la competizione nel mercato dei chip incalza, inasprita dalle tensioni geopolitiche tra USA e Cina, e il Giappone cerca maggiori sicurezze.
In quest’ottica, il 17 maggio, il primo ministro Kishida Fumio ha incontrato i dirigenti di alcune delle maggiori industrie del settore, inclusi i rappresentanti della statunitense Intel, di Samsung (leader nella produzione di memory chips) e di TSMC (l’industria che produce i semiconduttori più tecnologicamente avanzati sul mercato). Durante l’incontro Kishida ha auspicato maggiori investimenti nel Paese e la statunitense Micron ha annunciato la sua intenzione di investire 3,6 miliardi di dollari in un impianto per la produzione di memory chip nel Paese, con il supporto del governo.
L’incontro tra gli esponenti del settore arriva in un momento in cui gli Stati Uniti stanno spingendo gli alleati a collaborare per frenare lo sviluppo tecnologico della Cina.
Nell’ottobre 2022, l’amministrazione Biden ha modificato le Export Administration Regulations inserendo nella Commerce Control List statunitense i semiconduttori avanzati e i macchinari necessari a produrli. Tale decisione di fatto ha bloccato l’export, in particolare verso la Cina, di semiconduttori realizzati con tecnologia americana. In aggiunta, a marzo 2023 sono state annunciate le cosiddette guardrails provisions incluse nel Chips and SCIENCE Act – il piano che prevede sussidi statali per 52,7 miliardi di dollari per i nuovi stabilimenti aperti su suolo USA. Queste ultime fanno sì che un’industria che ha ottenuto i sussidi del Chips Act non possa espandere i propri impianti produttivi in Paesi stranieri ritenuti un pericolo per la sicurezza nazionale americana, a partire dalla Cina.
Quindi, se il Chips Act mira a riportare la produzione di semiconduttori sul suolo statunitense – nel 1990 il 37% della produzione di semiconduttori era locata negli USA, nel 2019 solo il 12% – i controlli alle esportazioni puntano a evitare che l’industria dei semiconduttori cinesi prenda il sopravvento sul mercato.
Tuttavia, la catena del valore dei semiconduttori è segmentata e i soli limiti USA non bastano a tagliare Pechino fuori dal mercato. Per questo Biden ha dato inizio a una campagna per arruolare alleati chiave nella supply chain, come Paesi Bassi e Giappone, entrambi produttori di macchinari per la produzione dei chip più avanzati. Tokyo, dopo iniziali tentennamenti, ha aderito alla linea americana, limitando l’export verso Pechino di 23 tipologie di macchinari per la produzione di chip.
Anche a Taiwan, del resto, non tutte le politiche dell’amministrazione Biden sono risultate gradite. Nell’ultimo mese, infatti, è stato riportato che alcuni alti ufficiali taiwanesi avrebbero chiesto agli alleati USA di moderare la propria narrativa sui rischi di un’eccessiva dipendenza dai chip taiwanesi (Taiwan controlla il 90% della produzione dei chip più avanzati). Alcuni rappresentanti USA hanno definito questa dipendenza “unsafe” a causa di una possibile invasione cinese dell’isola. Con la possibilità concreta che le politiche USA per riportare la catena produttiva dei chip in patria siano efficaci, la paura per l’isola di perdere il proprio vantaggio strategico si sta facendo più forte. Lo stesso Warren Buffett, a capo di Berkshire Hathaway Inc, ha dichiarato a maggio di aver venduto tutte le sue quote nell’industria taiwanese, preoccupato per i rischi geopolitici legati all’isola. E così la stessa TSMC è particolarmente attiva nell’annunciare impianti produttivi in USA – progetti in Arizona del valore di 40 miliardi di dollari. Taiwan non vuole essere privata della sua più redditizia industria e garanzia di sicurezza. Considerando i recenti investimenti in Europa, Giappone e negli USA da parte dei maggiori produttori di semiconduttori, Taiwan ha di che preoccuparsi.